Le parole e le cose di UG Krishnamurti

 

a cura di Federico Battistutta

 

 

 

 

Cominciamo con un'avvertenza. Questo florilegio di detti non può sostituire in alcun modo la lettura dei testi di UG, è solamente un assaggio. Molte delle citazioni sotto riportate per essere pienamente apprezzate richiedono una ricontestualizzazione in un discorso più ampio. Non solo, aggiungiamo che la scelta di questi detti - per quanto fornisca, senza dubbi di sorta, un ulteriore avvicinamento alla conoscenza di UG - è per forza di cose una selezione parziale. All'attento lettore la correzione del tiro. Anche se, leggendo di seguito tutti questi detti si riceverà l'impressione di seguire un discorso organico e unitario, essi appartengono a circostanze e a situazioni differenti, e per questi motivi si è dovuto, in alcuni passaggi, adattare leggermente la forma (mai, comunque, la sostanza del discorso).

Ci è parso importante iniziare con le considerazioni di UG sulla figura della guida spirituale e del relativo insegnamento. Troviamo innanzitutto il riconoscimento della domanda di un accompagnamento, ma al contempo tale domanda viene raccolta, sistematicamente rigirata e smontata tassello per tassello, ponendo le condizioni per la sua definitiva estinzione, nonostante le insistenze da parte di molti interlocutori per riesumarla.

La sezione seguente non può non riguardare le riflessioni sulla religione. Non c'è luogo del discorso religioso – occidentale come orientale – che non sia sottoposto a critica: Dio e l'anima, il Sé e lo spirito, la preghiera e la meditazione, lo stato di quiete mentale e la santità, la nonviolenza così come ogni altro atteggiamento dell'uomo pio e devoto. Da questa prospettiva le posizioni di UG gettano le basi per la costruzione di una critica religiosa della religione.

Un gruppo di citazioni sono dedicate alla ricerca interiore. Uno dei leit-motiv di UG è che perché possa accadere un rivolgimento interiore deve cessare ogni ricerca motivata e deliberata. “Chi cerca, trova”, recita un famoso adagio. Si dice che in tali detti sopravviva una saggezza antica. Potremmo allora aggiungere che qualcosa si troverà al termine della ricerca, certamente, ma sarà assai diverso da quello per cui ci si era messi inizialmente in viaggio. L'ideale da cercare, così come ogni dover essere, vengono consumati in funzione della piena immersione nel qui ed ora. “E alla fine di tutto il nostro esplorare/ Torneremo sul punto di partenza/ E lo vedremo per la prima volta”, per citare dei versi famosi di T.S. Eliot.

Seguono poi due sezioni, in cui una richiama fortemente l'altra, dedicate al linguaggio e al pensiero: argomenti cari a UG, che ritornano di frequente nelle sue discussioni. Il pensiero, così come il linguaggio che lo esprime, si autoperpetuano, al punto che, per quanto ci sforziamo, non possiamo arrivano a conoscere la natura del pensiero, ma solo dei pensieri riguardanti il pensiero, creando una sorta di guaina onnipervadente e autoavvolgente. Alcune fra le più acute osservazioni di UG in merito sembrano poi riecheggiare, anche se in una forma più determinata e meno specialistica, alcuni detti elaborati nella prima metà del Novecento da Alfred Korzybski (fondatore dell'approccio chiamato semantica generale); come il celebre: “la mappa non è il territorio”, o “qualsiasi cosa si possa dire che una cosa è, non lo è", resi in seguito celebri dalle teorie e dagli studi sulle patologie comunicative di Gregory Bateson o di Paul Watzlawick e della scuola di Palo Alto.           

La sezione immediatamente successiva contiene alcuni aforismi dedicati alla società. Sarebbe infatti oltremodo limitativo circoscrivere l'atteggiamento critico di UG all'universo religioso o al mondo della pura interiorità, lasciando inalterato tutto il resto, la cosiddetta “sfera profana”. La sua riflessione è a tutto campo, si distende su ogni aspetto del vivere sociale. E non può non farlo perché il suo sguardo non incasella in comparti separati, non ha un dentro che sia separato o separabile da un fuori.

La sua critica della cultura viene stemperata con un invito a non manifestare apertamente tali convinzioni, accettando di conseguenza il sistema sociale vigente. Potremmo parlare di un'accettazione tragica: la società viene alla fine accettata non perché il suo sfruttamento o la sua disumanità siano irreali o illusorie, secondo una malintesa visione spirituale, tutt'altro, né perché ci troviamo dinanzi al migliore dei mondi possibili, ma per un puro motivo di sopravvivenza, semplicemente per non venire ostracizzati o criminalizzati.

Se c'è chi ha osservato che la critica da parte di UG al sistema sociale è priva di effetti pratici, va aggiunto che secondo lui proprio il perseguimento di un ideale sociale perfetto, più o meno paradisiaco, ha creato spesso situazioni infernali, riferendosi non esclusivamente ai trascorsi regimi totalitari, ma includendo a pieno titolo anche la trionfante quanto opulenta società democratica occidentale. Rispetto a ciò, più ci si contrappone e si resiste a un tale sistema, più si finisce per rafforzarlo, rimanendo intrappolati nella dinamica stessa del fenomeno che si intende cambiare. L'alternativa risiede in un radicale cambiamento di prospettiva.

Si parlerà poi di vita e di morte. Se, come si è detto sopra, la visione di UG non è di tipo analitico, allora neppure la vita può venire separata dalla morte, pur essendo essi due eventi ben distinti. Alle persone che spesso lo interpellavano per parlare della morte, cercando rassicurazioni o conforto, lui rispondeva riconducendo ogni riflessione all'esistenza di un continuum di vita e morte, senza fine. 

Per finire, chiuderemo questa breve silloge con alcuni detti riguardanti lo stato naturale. Questa espressione gli era particolarmente cara ed egli insisteva nel dire che non era da intendere come sinonimo di “illuminazione” o “realizzazione.” Anzi, nel continuare a parlare di uno “stato naturale” vi vedeva il pericolo di ingessare il discorso dentro una terminologia coniata ad hoc, riportando all'interno di categorie conosciute qualcosa di costitutivamente irriducibile al pensiero cosciente e all'elaborazione del linguaggio. Qui è bene ribadire che quando si dice “stato naturale” non si sta parlando propriamente di uno “stato”, ma, all'opposto, di qualcosa di intrinsecamente dinamico, un movimento perpetuo senza centro o direzione. Né si intende per “natura”, l'insieme del regno minerale, vegetale e animale, o la ricerca romantica e nostalgica di una condizione di innocenza, contrapposta alla nevrotica vita metropolitana.

Possiamo rappresentarci il modo di definire l'identità della nostra persona come un tracciare, consapevolmente o meno, un segno di delimitazione, una linea di confine: tutto ciò che ricadrà all'interno del confine segnato sono io; quello che si trova all'esterno è non io. Rispondere alla domanda: “chi sono io?”, significa in fondo rispondere al quesito: “dove sta il confine?” Solitamente la linea di confine che tracciamo è indicata dalla nostra pelle, anche se molte volte finiamo volentieri per identificarci non con la totalità della nostra persona, ma solo con quegli aspetti di noi stessi - del nostro corpo, della nostra mente, della nostra esperienza - che siamo disposti ad accettare, trascurando, escludendo o addirittura negando i lati oscuri, le ombre che ci abitano. Aggiungiamo che tale linea di confine può essere ridefinita, lungo l'asse del tempo e dell'esperienza, annettendo o espellendo nuovi territori, attraverso procedimenti di avanzamento o arretramento. A volte la linea di confine può divenire un terreno di battaglia, un luogo di conflitto e sofferenza, fra noi e gli altri, fra noi e noi stessi.

Ecco, prendendo per buona questa rappresentazione, lo stato naturale può venire inteso come una condizione in cui lasciamo andare la presa, ci arrendiamo. Non si può programmare. Non è neppure un atto deliberato attraverso il quale espandiamo i nostri confini con la forza della volontà o della mente. Sarebbe un delirio di onnipotenza o una forma bizzarra di imperialismo identitario. E' l'esatto contrario, si tratta di disarmo. E' un gioco a perdere, di cui non siamo tenuti a conoscere gli esiti. Pertanto non c'è ragione per cui vantarsi, celebrandola magari in modo retorico o poetico. C'è quello che c'è e il linguaggio asciutto di UG, che in molti passaggi può irritare, sta ad indicare questo.

Un ultimo aspetto, infine. Alcune affermazioni colpiscono alle radici ogni pretesa antropocentrica. Certe considerazioni sulla crisi planetaria ricordano da vicino proprio alcuni aspetti dell'”ipotesi Gaia” formulata alcuni anni fa da James Lovelock, anche se UG non si dà cruccio nel perseguire una prospettiva scientista. L'”ipotesi Gaia” - che prende il nome dall'omonima divinità femminile greca - si basa sull'assunto che gli oceani, i mari, l'atmosfera, la crosta terrestre e tutte le altre componenti geofisiche del nostro pianeta si mantengano in condizioni idonee alla presenza della vita, proprio grazie al comportamento di tutti gli organismi viventi, ricorrendo a continui processi omeostatici per l'effetto dei processi di feedback attivo. E all'interno del processo che forma e costituisce Gaia, un fattore inquinante e perturbante è rappresentato proprio dalle attività, dalle strutture e dalle infrastrutture costruite dall'uomo, che interagiscono fortemente con il pianeta, alterando alcuni fattori determinanti, come la temperatura, i composti chimici e altro ancora. In questo quadro l'attività umana, alterando i meccanismi che sono alla base dell'equilibrio tra le diverse forme di vita, finisce per danneggiare innanzitutto sé stessa, mettendo a rischio proprio la sopravvivenza della specie, mentre, dal canto suo, la terra potrà alla fine trovare nuove vie e nuove forme per assicurare il proprio equilibrio omeostatico.

 

Giunti a questo punto, abbiamo terminato la presentazione. Forse, come accade in simili frangenti, nell'auspicio di dire tutto abbiamo lasciato distrattamente qualcosa indietro. L'essenziale comunque è stato espresso. (Ho approfondito la testimonianza di UG in due scritti a cui rimando: L'anarchismo religioso di UG Krishnamurti, “A - Rivista anarchica”, n. 337, estate 2008;  UG Krishnamurti: per una critica della ragione religiosa, “Religioni e società”, n. 64, maggio-agosto 2009). Possiamo entrare allora nel mondo delle parole - che affermano e negano sé stesse - di UG Krishnamurti.

 

           

1. Sull'insegnamento

 

Io non so nulla. Se voi supponete che io sappia qualcosa vi sbagliate di grosso.

 

Esisto in questo mondo? Per me esiste il mondo? Non sto cercando di fare sfoggio di intelligenza con queste frasi. Non so letteralmente nulla. Sto parlando? Sto dicendo qualcosa? E' come l'ululato dello sciacallo, l'abbaiare di un cane o il raglio di un asino.

 

Qui non c'è niente da prendere e voi non otterrete nulla. Non è che io voglia tenere le cose per me, voi potete prendere tutto ciò che volete, ma io non ho niente da darvi, non sono diverso da ciò che anche voi siete.

 

Non ho alcun messaggio particolare per l'umanità e nemmeno possiedo lo zelo del missionario. Non sono un salvatore dell'umanità o cose del genere.

 

Io sto ripetendo le stesse cose giorno dopo giorno. Sto esponendo un concetto ed il secondo concetto nega il precedente. Qualche volta percepite delle contraddizioni in quello che dico. Ma in realtà non ci sono. Se il primo concetto non ha espresso quello che sto tentando di esprimere, il secondo lo negherà. Il terzo concetto negherà i primi due ed il quarto i precedenti tre. Non c'è il proposito di dimostrare qualcosa, di comunicare nulla. C'è solo questa serie di negazioni. Non c'è niente che deve essere comunicato.

 

Vedete, io mi trovo veramente in una posizione difficile. Non posso aiutarvi: qualunque cosa dica, vi porta fuori strada.

 

Non vi sto dando delle risposte. Se fossi così stupido da fornirvi risposte, voi dovreste capire che proprio queste stesse risposte distruggono la possibilità che le domande scompaiano.

 

Non mi preoccupo tanto di demolire quello che altri prima di me hanno detto. Sarebbe fin troppo facile. Mi preoccupo invece di togliere di mezzo quello che io stesso dico. Per essere più precisi, sto cercando di impedire che possiate interpretare quello che sto dicendo a modo vostro. Per questo motivo appare contraddittorio quello che dico.

 

La mia missione, se ce n'è una, sarà d'ora in poi negare il valore di tutte le mie precedenti affermazioni.

 

Fino a quando non avrete il coraggio di distruggermi, insieme a tutto quello che dico, insieme a tutti i guru, voi non sarete altro che dei seguaci che si accontentano di fotografie, di cerimonie, di compleanni da celebrare e cose di questo genere. Mi dispiace, io canto la mia canzone e me ne vado.

 

Il coraggio di essere voi stessi, di stare ben saldi sui vostri piedi, è qualcosa che non vi può essere dato da nessuno.

 

Ho scoraggiato molti a venirmi a trovare. Anche se vengono solo per sedersi vicino a me, cerco di evidenziare il carattere ridicolo di un simile incontro, facendola breve e accomiatandomi. Spesso, malgrado tutto, non se ne vanno, si siedono e restano con me ore e ore. Anche se mi alzo e me ne vado, loro restano seduti a parlare. Parlano di ciò che ho fatto o di quello che secondo loro avrei detto o non avrei detto. Mi succede dappertutto, pure in India, dove in effetti siamo abituati a questo genere di cose.

 

Pensate che mi illuda di poter comunicare con voi? Il semplice fatto che siate ritornati qui per parlare e discutere, dimostra che non avete ascoltato proprio nulla di quanto ho detto. Se aveste capito per davvero, l'intera faccenda sarebbe chiusa, per voi, una volta per sempre. Non andreste a cercare guru, non leggereste libri che affrontano questi argomenti, non andreste ad ascoltate nessuno.

 

Non ho detto nulla. Tutto quello che pensate che io abbia detto è un'astrazione. Voi dite che ha senso. Come può avere senso? Se pensate che abbia senso non avete capito nulla. Anche se pensate che ciò che ho detto non abbia senso alcuno non avete capito nulla. Sono solo parole, voi state solo ascoltando questo rumore.

 

Qualsiasi cosa, quella foglia lì, ad esempio, ti può insegnare se solo le lasciassi fare quello che riesce a fare.

 

 

2. Sulla religione

 

Non c'è un centro, non c'è un Sé, né un'anima. Non c'è proprio nulla.

 

Non c'è niente da raggiungere, niente da guadagnare, niente da ottenere e nessuna meta da perseguire.

 

Che cosa resta? Nulla. Io metto in dubbio la totalità delle esperienze spirituali. Ecco cosa sto cercando di strappare via.

 

La realtà ultima è un'invenzione dell'uomo e non ha assolutamente nessuna relazione con la realtà di questo mondo. Più cercherete di comprendere la realtà ultima, più vi sarà difficile vivere la realtà delle cose come sono.

 

Religione, Dio, anima, beatitudine, liberazione, non sono altro che parole (…) Quando quei concetti vengono tolti di mezzo, ciò che resta è il semplice e armonioso funzionamento fisico dell'organismo.

 

Voi credete nei salvatori, ma è proprio da loro che dovete salvarvi. Vi dovete redimere dall'idea che qualcuno possa venire a redimervi.

 

La questione dell'esistenza o inesistenza di Dio è irrilevante e immateriale. Non sappiamo che farcene di Dio. Lo abbiamo utilizzato per giustificare l'uccisione di milioni e milioni di persone.

 

Rimarrete violenti fintanto che perseguirete un ideale di nonviolenza, fintanto che vorrete divenire persone dolci e gentili. Un uomo gentile, che pratica la virtù è realmente una minaccia, non i cosiddetti violenti.

 

Non esiste una vera rinuncia. L'idea stessa di rinunciare, di negarsi qualche cosa, è finalizzata ad ottenere qualcosa d'altro.

 

Sfortunatamente per secoli ci hanno insegnato ad interpretare tutto quanto in termini religiosi e questo ha creato una condizione di miseria per tutti noi. E più continuate a interpretare le cose in termini di religione, più aggiungete miseria alla vostra vita.

 

Non ho interesse per i teologi che dibattono senza fine cercando di inculcarci - per mezzo del loro pensiero dialettico - le prove cosmologiche, ontologiche e teleologiche dell'esistenza di Dio. Questioni del genere non ci interessano e non hanno più importanza perché ce ne serviamo solo a fini di sfruttamento. Adoperiamo il pensiero come strumento di distruzione e desideriamo credere che Dio stia dalla nostra parte.

 

Voglio contraddire le persone in India che dicono che il pensiero dev'essere adoperato per realizzare uno stato meditativo di assenza di pensiero. Non esiste qualcosa come uno stato privo di pensieri: i pensieri ci sono e ci saranno sempre. Il pensiero finirà quando sarete un corpo morto.

 

Introducendo il concetto di pace della mente, stiamo mettendo in moto un conflitto senza fine.

 

La coscienza deve ripulirsi, deve purgarsi da ogni traccia di santità e di nefandezza. Anche ciò che chiamiamo ‘sacro' e ‘santo' è una contaminazione.

 

 

3. Sulla ricerca

 

Voi sapete tutto sulla verità e sulla realtà. La sfortuna circa questi problemi è che voi sapete tutto su queste cose e questo sapere è la vostra miseria.

 

Solo quando la ricerca finisce, allora quello che realmente è, esprimerà sé stesso nella maniera che gli è proprio.

 

La vita in sé stessa è tutto quello che c'è. E' la ricerca di un significato spirituale che ha fatto diventare la vita un problema.

 

Per quale motivo la vita dovrebbe avere un significato? Perché dovrebbe esserci uno scopo per vivere? La vita in sé stessa è tutto quello che c'è. E' la ricerca di un significato “spirituale” che ha fatto diventare la vita un problema. Vi siete imbottiti di tutta quella spazzatura che offre un modo di vivere ideale, perfetto, in quiete, pieno di significati, e consumate la vostra energia per pensare a cose del genere.

 

Invece di vivere, siete ossessionati da come dovreste vivere.

 

Coraggio significa spazzare via tutto quello che l'uomo ha sperimentato e provato prima di voi. Tu sei l'unica cosa che conti, più importante di ogni altra cosa. Tutto è finito, per quanto sacro e santo possa essere stato.

 

La paura di affondare è ciò che rende impossibile lasciare che il movimento della vita si esprima nel suo modo naturale. Non ha scopi, è un movimento senza direzioni. Voi state tentando di manipolarlo e di incanalarlo lungo una particolare direzione per ricavarne qualche beneficio. Ma esiste solo questo movimento senza direzioni.

 

Quando vi trovate in una situazione in cui non c'è possibilità alcuna di trovare una risposta, quello è il momento in cui può accadere qualcosa.

 

Voi dovete toccare la vita in un punto dove non è mai stata toccata da nessuno prima d'ora. E nessuno può insegnarvi come si fa.

 

Devi arrivare ad un punto in cui ti dici: “Non reggo più questa cosa.”

 

 

4. Sul pensiero

 

Il pensiero è fascista per nascita, natura, espressione ed azione. Il pensiero è interessato solo a proteggere sé stesso e non fa altro che innalzare barriere intorno a sé, barriere che vuole proteggere. Ecco perché alla fine ci barrichiamo dietro le nostre barriere, come la famiglia, la nazione e, infine, il pianeta.

 

E' in questo modo che funziona il pensiero logico. La logica è utilizzata da parte dell'uomo per avere ragione sull'altro. Pure questa è un'arma di distruzione e quando la logica fallisce, si passa alla violenza.

 

Il bisogno di comprendere il mistero dell'esistenza è di per sé distruttivo.

 

Il pensiero è un meccanismo di autoprotezione, preoccupato di proteggere sé stesso a spese dell'organismo vivente.

 

Tutto il pensiero così come l'attività intellettuale sono dei defunti. Perché il pensiero scaturisce da idee morte. Il pensiero o il meccanismo intellettuale che provano a sfiorare la vita, a viverla, a imprigionarla, a darle un'espressione, svolgono delle attività impossibili.

 

Non ci sono pensieri, ma quello che c'è è solo attività concernente il pensiero. Quello che chiamiamo pensare è solamente un pensiero dialettico riguardo al pensare stesso.

 

Non vogliamo liberarci dalla paura. Quello che facciamo per liberarci dalla paura è esattamente ciò che la rafforza. Esiste un maniera per liberarci dalla paura? La paura non può essere gestita da parte del pensiero perché è qualche cosa di vivo.

 

Noi non guardiamo mai nulla. E' troppo pericoloso, perché l'atto di guardare distrugge la continuità del pensiero. Invece ci limitiamo a proiettare le conoscenze che possediamo su ogni cosa che stiamo osservando.

 

 

5. Sul linguaggio

 

La nostra lingua è ricca di espressioni del tipo “bello”, “orribile”, “detestabile.” Non c'è bisogno di aggettivi o di avverbi, non abbiamo bisogno neppure dei verbi. Tuttavia per ragioni comunicative dobbiamo fare affidamento sulle parole. Quando dico: “E' un ragazzo cattivo”, non intendo esprimere un giudizio di valore, perché è una frase descrittiva. E' in questo modo che descriviamo o inseriamo le azioni di quella persona nella casella “cattiveria.” Sono costretto ad utilizzare quel termine anche se non si tratta di un giudizio di valore. (…) A prescindere dal modo in cui cerchiamo di esprimerci, il problema con il linguaggio è dovuto al fatto che rimaniamo imbrigliati nella struttura delle parole.

 

Quando definiamo qualcosa come “bello”, lo abbiamo già distrutto. Chiamandolo “bello”, lo abbiamo inserito in uno schema.

 

La questione è che abbiamo introdotto ogni genere di espressione per nascondere l'impossibilità a riuscire a capire la realtà delle cose attraverso il linguaggio. Il pensiero non è riuscito a comprendere la realtà, anche se è l'unico strumento a nostra disposizione.

 

Nulla può essere espresso e quindi è impossibile affermare che questa è la verità. La verità in realtà non esiste, c'è solamente una premessa costruita su basi logiche.

 

L'immagine del ventriloquo: avete presente quella persona che fa una domanda con una voce e risponde alla stessa domanda adoperando un'altra voce? Ecco, tutte le domande derivano dalle risposte che già possediamo, altrimenti non avremmo più domande.

 

Ogni domanda è originata dalle risposte, ma nessuno vuole delle risposte. La fine della domanda vuol dire la fine della risposta. La fine della soluzione è la fine stessa del problema. (…) Le soluzioni sono ancora un problema, ma in realtà non esiste alcun problema. L'unico problema è scoprire quanto siano inadeguate o impotenti tutte le soluzioni che ci vengono offerte. 

 

La domanda deve bruciare per autocombustione, e la domanda non potrà bruciarsi finchè ti aspetti una risposta, dall'interno o dall'esterno. Quando la domanda si sarà bruciata da sola, quello che c'è comincia ad esprimersi. E sarà la tua risposta.

 

 

6. Sulla società

 

Non combatto la società, non sono in conflitto con essa, né sono interessato a trasformarla. Non ho bisogno di apportare un cambiamento in me stesso. Non ho bisogno di cambiare questo sistema o la gente, in generale. Non perché sia un uomo indifferente alla sofferenza. Io soffro se vedo persone sofferenti e sono felice quando vedo uomini felici.

 

Se affermo che Dio è inutile non è per compiere un tentativo di ribellione, il pensiero religioso è quanto mai obsoleto. Faccio un passo ulteriore con l'affermare che tutte le ideologie politiche altro non sono che il prodotto deforme dello stesso pensiero religioso dell'uomo.

 

E' l'idea stessa di paradiso, l'idea di costruire un paradiso in terra, che ha trasformato quel magnifico paradiso che possedevamo in un inferno.

 

Il pianeta non è in pericolo, ma noi sì. Lo possiamo inquinare e farne ciò che ci pare, il pianeta è in grado di assorbire qualsiasi cosa, anche i nostri corpi. Se l'uomo viene sterminato, la natura sa cosa fare dei corpi umani: li ricicla per preservare il livello energetico dell'universo. Questo è il suo unico interesse. Pertanto l'uomo non ha maggiore o minore significato di qualsiasi altro fenomeno del pianeta. L'essere umano non è stato creato per uno scopo superiore a quello delle formiche o delle mosche chi ci ronzano attorno, o delle zanzare che si nutrono del nostro sangue. 

           

I problemi non vengono creati dalla natura, siamo noi a crearli. In natura esiste abbondanza e prodigalità, mentre noi rubiamo ciò che giustamente appartiene a tutti e poi veniamo a dire che bisognerebbe fare l'elemosina. Questo è assurdo! La pratica della carità, creata dalla religione, è quello che impedisce di affrontare i problemi in maniera onesta.

 

 

7. Sulla vita e sulla morte

 

Non è possibile parlare della vita o della morte, perché la vita non ha principio né fine.

 

La vita è come un fiume in piena che preme contro gli argini e minaccia i limiti che gli sono stati imposti.

 

E' proprio quando non sperate e non tentate di capire che la vita si riempie di significato. La vita, l'esistenza ha una tremenda vitalità in sé stessa.

 

La vita può avere avuto un inizio non preordinato, può essere iniziata per caso. Gli sforzi da parte dell'uomo per dare alla vita una direzione conducono solamente alla frustrazione, poiché la vita in sé stessa non ha alcuna direzione.

 

La morte in realtà non esiste. Quello che possediamo sono solo delle idee sulla morte.

 

Non c'è morte, voi non siete mai nati. Non sto provando a mistificare, la vita non ha inizio, né fine.

 

Solo dei morti fanno delle domande sulla morte. Chi è vivo per davvero, non solleverà mai domande simili.

 

Il corpo non muore, muta la sua forma, si dissolve nei suoi elementi costitutivi. Per il corpo non c'è la morte; la morte esiste per il pensiero, perché non accetta l'idea che possa finire.

 

Non vogliamo renderci conto che viviamo settanta o ottanta anni. La morte pone fine a tutti i risultati che abbiamo conseguito in quell'arco di tempo. Il rifiuto di accettare questa realtà ci fa immaginare l'esistenza di una vita ultraterrena offrendo spazio alle fantasie più diverse.

 

La soluzione per i vostri problemi esiste: è la morte. Quella libertà che vi preme tanto può esserci solo in punto di morte. Tutti raggiungono la liberazione alla fine, perché la liberazione implica sempre che prima si debba morire. E tutti quanti muoiono.

 

 

8. Sullo stato naturale

 

Può questo stato naturale essere catturato, contenuto ed espresso attraverso delle parole? No, non è possibile. Non potrà mai divenire parte del pensiero cosciente. Perché allora io dovrei parlare di questo stato di non conoscenza? Non ha nessun utilizzo nella vita pratica di ogni giorno, non può mai divenire parte del nostro pensiero cosciente e delle nostre esperienze.

 

Tutte le specie sono sopravvissute per milioni di anni e noi ci siamo evoluti allontanandoci da esse. Senza di esse probabilmente non esisteremmo. A che cosa serve quindi il bisogno di sapere?

 

L'errore fondamentale che l'umanità ha compiuto a un certo punto è stato sperimentare la separazione dalla totalità della vita. In quel momento l'uomo, con la coscienza di sé, si è separato definitivamente dalla vita che lo circondava e l'isolamento è stato tale da provarne paura. Il bisogno di tornare di nuovo a fare parte di questa totalità ha creato un intenso bisogno di assoluto, nella speranza che gli obiettivi di tipo spirituale - Dio, la verità o la realtà - lo aiutassero a tornare a far parte di quel tutto. Tuttavia lo stesso tentativo di divenire un tutt'uno o di integrarsi nuovamente nella totalità della vita lo ha allontanato sempre di più.

 

Noi non facciamo altro che proiettare le nostre concezioni e le nostre idee sulla natura, immaginandola meravigliosamente ordinata. Immaginiamo anche che esista un progetto o un piano, come l'evoluzione. Io non credo che esista nulla del genere. Probabilmente non esiste altra evoluzione se non quella che noi proiettiamo sulla natura, confrontando un elemento all'altro e deducendo che sia la necessaria e diretta conseguenza dell'altro.

 

Il fatto stesso di far qualcosa per ripristinare quello stato iniziale finisce per allontanarlo sempre di più. La condizione originaria esiste già e si esprime in una forma straordinariamente intelligente.  

 

Lo stato naturale corrisponde al funzionamento di questo organismo vivente, ma tuttavia non è sinonimo di illuminazione, realizzazione dell'esistenza di Dio o realizzazione del Sé. (…) Non può essere catturato o contenuto, né è possibile esprimerlo ricorrendo alla struttura della nostra esperienza in quanto è esterno a quel campo.

 

Ma quale stato? Lo stato del Mysore oppure il Tamil Nadu. Di che stato parlate? Questa è la mia risposta, voi non volete comprendere ciò. Voi non volete essere nel vostro stato naturale. Ci vuole un'intelligenza straordinaria per essere nello stato naturale, per essere voi stessi.